Zugzwang!

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Il termine tedesco Zugzwang indica, nel gergo degli scacchi, l'obbligo di muovere un pezzo per poi subire inevitabilmente la sconfitta.
Sentii per la prima volta questo termine in una di quelle fantastiche sere del giovedì, in cui io e Lisa siamo soliti ordinare una pizza tramite una mirabolante app per cellulare, grazie alla quale possiamo selezionare una pizza dal menù oppure scegliere una base, ad esempio Margherita, e poi aggiungere cinque elementi a scelta, tra una lista assai fornita di cosiddetti "extra tap".
Immancabili le sei birre per sei pound acquistate fresche all' off licence sotto casa, appena dopo la fermata della metro di Bermondsey.
Quello che trovavo la vera finezza di questa app era la possibilità di pagare con carta di credito e, ancora più “stiloso”, scegliere l'orario di arrivo delle pizze in modo che, se si fosse ordinato da una qualsiasi parte della città, saremmo arrivati a casa più o meno in contemporanea alle pizze fumanti.
Il solo odore dell'origano sulla mozzarella è capace di inebriarmi e rendere l'attesa del primo boccone quasi insopportabile, e il sorso di birra che segue completa l'estasi del giovedì sera.
Dopo aver sistemato i cartoni delle pizze sul tavolo, di solito Lisa posiziona il suo computer ad equa distanza tra me e lei, da una controllatina ai programmi di scambio file ( motivo per cui il suo computer è acceso ventiquattro ore al giorno sette giorni su sette ) e poi apre la cartella dei telefilm.
Qualcuno descriverebbe queste situazioni come " momenti di trascurabile felicità", io li descriverei più come una droga con effetti collaterali trascurabili.
Quella serata si era deciso per una maratona di un certo telefilm definiamolo poliziesco, ormai alla settima o ottava stagione, non ricordo bene.
Fatto sta che verso metà del secondo episodio un signore con seri disturbi decide di prendere di mira la task force protagonista e colpirne i membri uno ad uno dove fa più male.
Prima di ogni delitto ogni membro riceve un avvertimento sotto forma di telefonata, biglietto anonimo o non so cosa, che contiene appunto la parola Zugzwang. Dopo poche ore fidanzate, mogli, figli o animali domestici vengono aggrediti ed uccisi, o per lo meno mutilati.
La serata del giovedì si conclude di solito con l'ultima lattina di birra appoggiata sul comodino e col pc in grembo finiamo un ultimo episodio, attendendo che qualcuno (io) si addormenti anzitempo.
Di solito mi sveglio perché sento l'assenza di audio, o forse sono gli occhi sgranati di Lisa che mi fissano nella semi oscurità, verdi come le foglie in primavera.
In quei giorni era appena iniziato un periodo, che non sapevo ancora sarebbe stato così lungo, di disoccupazione dato dal mio allontanamento dal magazzino delle albicocche di stoffa.
Deciso a prendermi una settimana di totale nullafacenza, ripresi in mano il mio progetto di visitare ogni giorno un quartiere di Londra.
Era anche quel periodo in cui mi ero incarognito a leggere un libro di Kerouac che non riuscivo a finire e, visto che la metro mi conciliava una lettura talmente profonda da rischiare ogni volta di mancare la fermata, decisi di unire le due cose.
Inconsapevole del periodo di magra che mi stava aspettando, decisi di fare un abbonamento metro zona 1-4 per una cifra insensata.
Ad ogni modo per sfruttare questo acquisto poco ragionato, iniziai a prendere la metro verso tutte le direzioni a patto che il tragitto fosse sufficientemente lungo da concedermi almeno mezz'ora ininterrotta di profonda lettura e, ovviamente, non superasse la zona 4.
La sera prima mi ero messo a guardare sulla mappa tutti i rivenditori di videogiochi della catena Game, deciso a portare un curriculum se non due in ognuno di essi. Vidi che un negozio si trovava all'interno del centro commerciale di Stratford, ossia il capolinea est della linea grigia che passa qui sotto. Navigando su internet cercai di figurarmi la grandezza di questo centro commerciale, passando al vaglio i negozi e guardando la piantina sulla quale erano raffigurati con diversi colori a seconda della tipologia.
Dopo un po iniziai a non capire più molto e decisi di rimandare al giorno dopo le mie scoperte.
Solitamente il venerdì mattina si fa a gara a chi si accaparra per primo il bagno, le lattine di birra vuote riverse sul comodino e i cartoni di pizza che sembrano lo scenario di un omicidio al pomodoro, con un coltello piantato verticalmente sul disegno di uno scimmiottato stereotipo di pizzaiolo italiano. Dritto in mezzo agli occhi giaceva la lama spuntata che avevo piantato la sera prima in segno di vittoria.
La colazione di quel mattino fu uguale a quelle di tutte le altre mattine della settimana; è incredibile quanto riesca ad essere monotono, metodico e ripetitivo in alcune cose.
Il Thè scaldato un minuto e quaranta secondi nel microonde, un minuto e cinquanta se lo scaldo assieme al Thè di Lisa. Da mesi mangiavo gli stessi biscotti col cioccolato su un lato: tre, una pillola di fermenti lattici, un pezzo di scottex, un cucchiaino e lo zucchero di canna.
Dopo che Lisa varcò la soglia di casa per andare a lavoro, mi stiracchiai per una mezz'ora sul letto, andai pigramente a lavarmi i denti e passare il filo interdentale, non so esattamente in quale ordine, ed infine andai ad aprire l'armadio per scegliere con cura i vestiti.
Presi dei pantaloni color senape, dei calzini viola, una polo marrone ed un cardigan di cachemire grigio scuro a pois verdoni, che si intonavano con le scarpe, aprii in fine il vano dove sono solito tenere le giacche e ne scelsi una scura a costine, molto casual.
Mi diressi verso la metro , con in mano quello che ormai rappresentava più una sfida che un libro, ed iniziai a leggere appena varcata l'entrata della stazione. Passarono meno di venti minuti prima di arrivare al capolinea di Stratford, quando con mio grande disappunto gli altoparlanti annunciarono di scendere dai vagoni. Appena messo piede fuori dalla metro venni travolto da un magma isterico di persone che confluivano in un sotterraneo, come lava in un crepaccio.
Seguendo il flusso, dopo una bella camminata raggiunsi l'entrata di quella che sembrava una piccola città dello shopping, con accecanti insegne e scale mobili ovunque. Alzando lo sguardo vidi tre piani brulicare ogni genere di umanità.
Ho sempre avuto certe fisse per i vestiti e anche per la biancheria intima, così decisi innanzitutto di muovermi verso il negozio di Calvin Klein underwear, ossia il sogno delle mutande. I prezzi erano tutto fuorché abbordabili ma fortunatamente era periodo di saldi e trovai in un angolo un pigiama meraviglioso ad un prezzo tutto sommato accettabile.
Aggiunsi un paio di boxer con elastico fucsia ed uscii dal paradiso dell'intimo per uomo in direzione del negozio Game: il paradiso del giocatore. Consegnare il curriculum la dentro mi diede la stessa impressione che mi avrebbe dato infilarlo dentro una bottiglia e poi gettarlo a mare. Ad ogni modo il tentativo non costava alcuno sforzo, inoltre potei dare una lunga occhiata a tutti i giochi e le console del negozio prima di trovare il coraggio di consegnare i miei fogli.
La sera feci vedere i miei acquisti a Lisa, che protestò perché non le avevo comprato nulla. In effetti non avevo pensato di prenderle qualcosa, ma in fondo l'ultimo pigiama di Calvin Klein era stato distrutto da lei.
Decisi così di accompagnarla a Stratford il sabato successivo.
Rimase molto affascinata da quest'orgia di negozi e di luci accecanti; ci fermammo subito per un caffè da Starbucks e poco dopo trovammo uno spiazzo circondato da una dozzina di ristoranti, con i tavoli ammassati al centro.
Probabilmente scegliemmo il peggiore, non tanto per qualità ma sicuramente per quantità di cibo che ci diedero, inoltre trovare una sedia si rivelò tutt'altro che semplice. Finito di pranzare presi un altro pigiama e dopo aver passato in rassegna almeno un terzo dei negozi presenti, e vi assicuro che sono davvero tanti, necessitavo di una boccata d'aria non artificiale, per cui presi per mano Lisa e ci muovemmo verso la Gallery esterna del secondo piano. Sgranando gli occhi mi accorsi che anche la parte aperta dello Stratford City Centre brulicava di negozi e persone, sedute ai tavolini dei caffè o sulle panche in mezzo alla via, mentre rimiravano i loro acquisti, tirandoli fuori dai relativi sacchetti ed osservandoli con l'attenzione e soppesandoli lentamente.
Quasi di fronte a Caffè Nero notammo un discreto agglomerato di gente e spinti dalla curiosità andammo a vedere.
Un ragazzo sui venticinque, con cuffia grigia, barba e pantaloni a sigaretta sfidava una persona dopo l'altra a scacchi giganti. Erano scacchi davvero enormi, saranno stati alti circa un metro e cinquanta, molti bambini li presenti erano decisamente più bassi della torre, già di per se tarchiata e goffa.
Quello che mi dette immediatamente sui nervi era la noncuranza e la leggerezza con cui batteva tutti i suoi avversari, come poteva fare un padre che insegnava al figlio le regole del gioco. Addirittura concesse ad un avversario di cambiare mossa, perché altrimenti la partita si sarebbe conclusa in meno di due minuti.
Ovviamente il mio primo istinto fu quello di prendere posto alla scacchiera e propormi come sfidante, sconfiggerlo e poi dargli la mano con la sua stessa arrogante leggerezza, ma due cose mi trattennero: la prima fu che non giocavo a scacchi da almeno cinque anni. La seconda fu Lisa, che mi strattonò per la giacca impedendomi di avvicinarmi al campo di gioco.
Sapevo che non avrei mai sopportato una sconfitta così decisi di rimandare il dolce momento della vittoria, impiegando il tempo successivo ad allenarmi. Dovevo raffreddare il sangue e iniziare a pensare ad una tattica per battere il campione. Come diventare un campione di scacchi a Londra in due settimane: manuale teorico ed esempi pratici for dummies.
Tornando indietro con la memoria pensai all'ultima volta che avevo giocato a scacchi. Era estate, purtroppo una di quelle peggio riuscite, mi trovavo al mare ed ero davvero un surplus di quella situazione.
Se c'è una cosa che odio sono le ossessioni che non siano le mie, e in quell'occasione ero esattamente nell'occhio del ciclone di ossessioni altrui. Mi trovavo sempre pranzo e cena ad ascoltare gli stessi discorsi sulle stesse cose, e la questione andava avanti ormai da un paio di settimane.
Inoltre odio stare al mare, odio il caldo, odio sudare, odio prendere il sole e cosa che odio ancora di più è nuotare.
Ricordo invece con amore infinito i pomeriggi di quell'estate passati ad un bar ad una cinquantina di metri dalla spiaggia.
So di aver appena detto che odio il mare, ma a cinquanta metri da esso spira sempre un vento piacevole anche nelle ore più torride di agosto, per cui ero solito sedermi ad un tavolino, sotto ad un tendone bianco, ordinando birra e noccioline mentre tiravo fuori dalla borsa un libro.
Curiosità vuole che anche in quel periodo stessi leggendo romanzi beat americani e all'epoca, visto il veramente poco da farsi, ne finivo quasi uno ogni due giorni.
Arrivò una sera in cui veramente mal sopportavo gli individui di quell'allegra compagnia estiva, quando un diversivo interruppe la pomposità e la supponenza di tali persone.
Una ragazza francese dal fare maledettamente artificioso e bohèmien estrasse da una borsa gigantesca una scacchiera e trentadue tra pedoni, torri, alfieri re e regine bianche e nere.
Si fecero avanti diverse di quelle persone boriose che accompagnavano l'unica estate in cui avrei voluto essere solo con i miei libri.
Le regole erano note, la scacchiera posizionata su uno sdraio ed il tramonto ad illuminare i giocatori. Eliminazione diretta.
La prima a cadere fu la regina francese, ad opera dell'alfiere albanese, fortunatamente il mio turno di gioco arrivò dopo poco e preso possesso dei neri sulla scacchiera, iniziai a far suonare la mia, di melodia.
Un tripudio di circa un ora, e ad ogni persona che sconfiggevo, brindavo con una birra, e più birre bevevo, più velocemente mi sembrava di farli capitolare, uno dopo l'altro e ancora e ancora, finché il tramonto si spense nel mare ed era rimasta solo la mia sinfonia di mille orchestre a sovrastare tutte quelle piccole vocine petulanti. Alle nove di sera non rimaneva più nessuno da battere, e fu il silenzio.
Tornando ancora più in dietro con la memoria, ripenso alle lunghissime partite in notturna durante i catastrofici weekend in montagna.
Credo di avere un tantino esagerato in quel periodo della vita, ma nonostante ciò ricordo molto lucidamente quando un tizio amico di amici trovò una scacchiera infilata in una libreria, dietro una serie di tomi. Mancavano all'appello dei pezzi per cui usammo i tappi del gin, del rum e del whisky per rimpiazzare la regina e due pedoni.
Prima di poter iniziare ci fu una tremenda disputa su quale tappo dovesse impersonare la regina: io ero assolutamente contrario al fatto che la regina fosse impersonata dal gin, che a mio avviso, poteva si e no permettersi di impersonare un pedone. Un mio amico, che aveva deciso che la bottiglia di whisky era diventata sua, promuoveva quest'ultimo a regina degli scacchi. Il rum è prodotto delle mie terre per cui lo sponsorizzavo caldamente. Alla fine tirammo a sorte ed ebbi fortuna, il rum sarebbe stato la mia regina.
Per riuscire a far star la scacchiera sul tavolo in mogano e velluto verde dovemmo spostare qualcosa come trenta lattine di birra vuote e mozziconi di sigaretta, svuotare due posacenere, e farci largo tra le bottiglie di superalcolici. Io tenevo in mano il mio bicchiere mezzo pieno di Havana, bottiglia a portata di mano, mentre il mio avversario mi fissava con la sigaretta in bocca.
Eravamo illuminati dalla fioca luce gialla di una lampada con paralume e sembravamo due americani dell'Alabama negli anni trenta.
In quell'occasione temevo i miei avversari perché oltre che carissimi amici, erano tutte persone estremamente intelligenti.
Gli incontri in quell'occasione si svolsero tra le tre e le cinque di mattino, quattro partecipanti tra cui io, finestre aperte in pieno inverno appenninico e il fumo che pigramente abbandonava la stanza scivolando fuori dagli scuri.
Alle cinque cadde l'ultimo re mentre la bottiglia vuota di gin rotolava sul pavimento. Quando guardai la stanza vidi uno scenario desolante, gente addormentata sui divani, piatti di plastica ovunque, lattine di birra vuote, bottiglie di ogni tipo e centinaia di sigarette spente ovunque. Alle cinque del mattino ero il vincitore.
Quindi chi era stata l'ultima persona che mi aveva sconfitto? Mi scervellai un po finché non mi tornò in mente un estate di quando ero bambino.
Dovevo avere circa sette o otto anni, e ricordo che mia zia aveva appena comprato una bellissima scacchiera in un negozio stile alto atesino, fatta di un meraviglioso legno, con tutti i pezzi intagliati a mano, lisci e lucenti.
Fu l'estate in cui imparai a giocare. Dopo qualche settimana riuscivo a tenerle testa, spesso perdevo ma ogni tanto riuscivo a vincere. Dopo un mese eravamo quasi allo stesso livello.
Tornando a casa dopo quelle vacanze scoprii che anche mio zio era un giocatore. In quel periodo ci frequentavamo molto e mi sembrò un idea carina passare del tempo assieme a lui giocando. Dopo diversi mesi capii che era il caso di passare alle piste per macchinine dato che, per quanto mi sforzassi e per quanto tempo impiegassi nel muovere i miei pezzi, la mia sorte non cambiava.
Ecco! Avevo trovato chi mi poteva aiutare a sconfiggere quell'insopportabile ragazzo a Stratford.
Immediatamente cercai su internet una scacchiera on line, mi iscrissi all'istante e per scaldarmi iniziai tre partite contemporaneamente.
Dopodiché mandai una mail molto dettagliata a mio zio in cui gli spiegavo passo passo come iscriversi al sito ed iniziare una partita assieme.
La prima partita devo dire che è stata eterna, inoltre il mio browser si rifiutava spesso di collaborare per cui spesso passava un giorno prima che si decidesse a farmi fare la mia mossa.
Dopo un po che la partita andava avanti avevo quasi paura di aprire la scacchiera, inoltre più il tempo passava e più mi rendevo conto di essere sulla difensiva.
Mi sembrava di essere tornato bambino, con la piccola differenza che stavo reggendo per maggior tempo; mi figuravo come un'enorme diga con una minuscola crepa, dalla quale iniziano ad uscire poche goccia d'acqua. Poi si sa come va a finire.
In una giornata ventosa decisi che era arrivata l'ora di sfidare l'omuncolo e svergognarlo davanti alla folla.
Mi vestii bene per l'occasione, in modo che lui potesse ricordarsi di me.
Presi la metro grigia e una volta arrivato al capolinea percorsi velocemente i corridoi fino allo shopping centre. Presi le prime scale sulla destra ed arrivai affannato alla scacchiera. Con grandissima sorpresa ed un velo di inquietudine vidi che avevano fatto sparire i pezzi degli scacchi, mi guardai intorno per capire dove potevano essere nascosti, al che decisi di entrare da Caffè Nero e chiedere informazioni, era giovedì e magari si poteva giocare solo durante il weekend.
Il commesso ascoltò attentamente la mia domanda posta in un inglese sconnesso dall'ansia, e, scandendo parola per parola, mi disse: la scacchiera è aperta solo fino alla fine dell'estate signore.
Era giusto l'inizio dell'autunno. 


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